[Varietà]
L’acqua si era ritirata, lasciando un velo di schiuma bianca dietro di sé. Il paguro sbirciò fuori. Tutto sembrava tranquillo. Tirò fuori le zampe dalla conchiglia e sentì la sabbia umida sotto di sé. Si aggrappò con forza al terreno e si lanciò verso il punto dove era sicuro di aver visto un frammento di sogliola. Era lì e spuntava di un nulla dalla rena.
Il sole batteva forte, il rumore della risacca si fece più cupo, annunciando la prossima onda con un gorgoglio che pareva arrivare direttamente dall’inferno. Dei paguri.
Il paguro correva a chele basse, chiudendo gli occhi per proteggersi dalla salsedine che gli sferzava il volto, lo sguardo fisso sull’obiettivo. Ancora pochi centimetri, pochi centimetri ancora.
Di colpo tutto si fece nero. Il paguro imprecò.
I suoni gli arrivavano ovattati sotto lo strato di sabbia sotto cui era finito. Riuscì solamente a distinguere le parole “smettila”, “paletta” e “mammaaa-mi-ha-distrutto-il-castellooo”, poi grida e versi acuti che neanche alcuni delfini di sua conoscenza li avrebbero tollerati.
Il paguro non sopportava più quella vita.
Per l’ennesima volta ripiombò nei pensieri cupi che lo tormentavano da mesi. Cosa ci faceva ancora lì? Che prospettive aveva? Chi era diventato? Cosa voleva dalla vita? Era felice?
Dove prima vedeva un luogo pieno di vita dove poter stabilirsi, ricco di servizi e opportunità, un luogo di scambio e raccolta dove lui e la sua famiglia avrebbero potuto vivere felici, ora gli occhi gli restituivano una vista deprimente: una spiaggia affollata di cicche di sigarette e piedi umani, raggaeton e olezzo d’immondizia lasciata al sole. Che merda.
Edgar riemerse dalla sabbia, mandò a fanculo tutto il mondo, girò le chele e si diresse verso casa.